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"Ultima lettera" a Gino Rizzo, di Donato Valli

Caro Gino, ho pensato di scriverti l’ultima lettera, dopo le tante comunicazioni di servizio del nostro lungo sodalizio. La lettera che ho sempre desiderato di scriverti, e che non ho mai scritto.

So che tu mi ascolti dalla stanza accanto, là dove non esiste più il rumore del mondo e regna un silenzio illimitato, infinito. Nessuno di noi si aspettava che tu avresti varcato la soglia del silenzio con tanto anticipo, nel momento in cui avresti dovuto raccogliere i frutti della tua vita gettata con enorme dispendio di forze nell’agone dei giorni, a favore della tua famiglia, dei tuoi amici, del tuo lavoro. Oggi tu hai pronunciato di fronte a tutti noi il tuo “consummatum est”.

Ma “consummatum est” non significa che tutto è finto. Il terribile verbo sospirato dal nostro Salvatore sulla Croce voleva dire che si era compiuto un disegno di vita, un progetto di esistenza, un piano di lavoro accuratamente svolto con noi tutti e per tutti noi. Nel linguaggio dei padri il verbo “consummare” significa soprattutto portare al punto di perfezione la propria attività, come ci ha insegnato Seneca, il grande padre spirituale della mia giovanile formazione, scrivendo all’amico Lucillo: “Considera quanto sia bello portare alla perfezione la vita prima di morire”.

E’ questa idea di perfezione che redime la tua morte, divenuta il coronamento dei tuoi desideri e del tuo impegno. Se avessimo la forza di pensare la tua esistenza senza questo evento finale, anziché piangere di dolore, avremmo la soddisfatta certezza di un dovere compiuto, di una missione portata al massimo livello di umana perfezione.

Penso alle tre componenti della tua missione alle quali hai dedicato la tua intera esistenza: la famiglia, la casa e il lavoro.

La famiglia. Ricordo, carissimo amico, i nostri innumerevoli e innumerabili viaggi romani. Tra il rullìo della macchina portata quasi a volare dall’indimenticato Fernando, la tua voce, oggi carezzevole nella memoria, mi riproponeva le gioie del focolare: il sacrificio della compagna di vita, la cara Anna, quasi sempre sola a governare la famiglia che si ingrandiva di nuove vite; e le avventure infantilmente epiche delle tre figliolette: la prima Myriam, quella che più ti somiglia per impegno e forza d’animo, e poi Roberta, la più severa e posata; e poi Daniela, l’ultima nata, la più sbarazzina, delle cui imprese innocenti ti compiacevi, rivedendo forse la tua infanzia insieme povera e gloriosa di gesta e di speranza.

E poi la casa: i progetti, i dubbi, la ferma volontà di costruirla ampia e solare, a tua misura. Io mi meravigliavo del tuo accanito discorrere e non capivo (lo capii molo più tardi) che la casa non era per te solo il luogo dove abitare, ma il simbolo di una fede, l’esaltazione di un mito, il compimento di un patto. E la fede, il mito, il patto avevano un solo nome: Scorrano, il paese dell’anima, il rifugio degli affanni quotidiani, il centro irradiatore delle energie dei padri e delle madri, ai quali attingevi la severità per le tue battaglie, convinto che le tue vittorie erano titolo di merito per rendere più cara e dolce la piccola patria del cuore: un sacrificio dovuto come figlio verso la propria madre.

E infine l’Università, il campo del tuo lavoro che hai arato con infaticabile sudore, non risparmiando le ore del giorno e della notte, non concedendo tregua alla tua mente e al tuo corpo, nel quale già leggevo trepidante i segni della fatica e del male che ti avrebbe domato. Mi fosti compagno, consigliere, fratello; e mi insegnasti a coniugare il mio sogno di poesia con la gagliarda marcia trionfale della scienza. Fummo, insieme con Saverio e Paolo e Aldo, gli incoscienti eroi delle epiche lotte romane, muovendoci imperterriti tra le insidie dei burocrati e i fili spinati degli interessi particolaristici e di basso profilo. Ammiravo in te la forza delle decisioni, il lucido progetto dei fini da perseguire, la ferrea volontà di non cedere di fronte agli insuccessi, l’instancabile anelito verso conquiste sempre più grandi, sempre più prestigiose.

Tre furono i cardini della tua opera instancabile di collaboratore prima e di diretto responsabile dell’Ateneo poi: la qualità degli studi e degli studenti, ai quali volevi offrire il massimo delle opportunità e del conforto; il perseguimento della eccellenza nel campo dell’insegnamento e della ricerca; il sogno di Lecce come città universitaria alla pari della tua amata e indimenticata Pavia, e di Pisa.

Oggi che queste utopie rivestono i panni della realtà, tutti ti dobbiamo qualcosa, siamo debitori del tuo entusiasmo, e orfani della tua presenza. Il ricordo del tuo volto franco e sereno, del tuo aperto sorriso ci preservino dallo scoramento e dalla resa. Rivolgo a te, carissimo Gino, la preghiera che l’amico vescovo di Molfetta, Tonino Bello, anch’egli uomo della nostra Terra dell’estremo Sud, avara e insieme generosa, rivolgeva alla Vergine Madre celeste in nome di tutti noi. Rimani anche nel nostro ricordo a darci ancora animo e incoraggiamento “quando incombe il dolore / e irrompe la prova /e sibila il vento della disperazione / e sovrastano sulla nostra esistenza il cielo nero degli affanni / o il freddo delle delusioni, / o l’ala severa della morte”.

Questa morte che ha potuto avere la vittoria sul tuo corpo, ma non certo sul tuo spirito, nella cui luce e nella cui memoria siamo fermamente decisi di continuare a operare per il resto dei nostri giorni. Addio, dolcissimo amico.

 

05/11/2002

 

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